Description
La quasi totale assenza di studi scientifici sulla figura di Mons. Luciano Migliavacca (1919-2013) non rende ragione della caratura del personaggio e della mole del suo materiale compositivo, ma mostra piuttosto quanto l’ultimo quarto del Novecento abbia marginalizzato l’attività di uno dei protagonisti della riforma della musica sacra italiana che, suo malgrado, ha subìto in prima persona gli esiti infelici di quel movimento. La circoscrizione della sua produzione all’uso liturgico amplifica ancora di più il problema della sua conoscenza che rischia di seguire, a dispetto di uno stile misurato, trasparente e concreto, il fenomeno dell’oblio naturale. Eppure questo materiale è ancora oggi in grado di descrivere un cristallo unico e irripetibile, tanto da poter affermare, come per un autore della letteratura, che egli abbia inventato un genere solo per se stesso, intendendo con questo l’unicità del rito ambrosiano.
La singolare declinazione del suo ruolo ministeriale passa attraverso il gusto per la parola e insieme per l’attenzione ai nuovi fenomeni musicali che attraversano il panorama italiano, intra ed extra-ecclesiale. Con questa prospettiva parteciperà fin dal suo ingresso in Seminario alle tappe che hanno preparato l’avvento del periodo conciliare, lasciandoci una produzione sterminata, sempre appropriata e allineata alle molteplici sfaccettature del rito che, più che essere riservata ad esecuzioni extra-liturgiche – che ne favorirebbero certo la conoscenza, ma anche la marginalità dal contesto suo proprio – attende di essere di nuovo riproposta all’interno della liturgia, con un occhio di riguardo per la produzione mottettistica.
A differenza dello stile pedagogico, che trova in don Claudio Burgio senza dubbio un suo discepolo, l’unicità del pensiero musicale di Migliavacca gli vale sia un’inconfondibile riconoscibilità sia un’impossibile sequela, caratteristiche che diverranno problematiche con il mutamento del gusto e del sentire sia liturgico sia musicale.
Dal momento che il periodo della sua attività coincide con il lasso di tempo in cui si avvia, s’impone e si declina in tutte le sue forme il nuovo corso della musica in chiesa all’indomani del Concilio Ecumenico Vaticano II, un approfondimento sulla sua poetica permette di trarre anche un parziale bilancio degli anni in cui si sono concentrati gli sforzi più poderosi per l’attuazione delle direttive conciliari, visti attraverso l’attività di uno dei protagonisti che – a differenza di altri che scelsero l’estraneità al dibattito quando non l’avversione polemica – ha elaborato dall’interno, sul campo, fattivamente e con libertà, quel passaggio epocale che implicava un mutamento sia liturgico sia teologico-pastorale: un periodo fecondo che riguarda la sua formazione nei seminari milanesi (1930-1942), la sua attività come educatore (1942-1956) prima di giungere alla direzione della Cappella Musicale del Duomo (1957-1998).
L’essere giunto sulla soglia dei quarant’anni alla guida di un’istituzione prestigiosa come la Cappella Musicale gli ha permesso di continuare, su un fronte professionale più qualificato, quel lavoro che aveva già iniziato da giovane sacerdote educatore, offrendogli anche, con l’opportunità di una maggiore sperimentazione, il raggiungimento di una sintesi del pensiero musicale. L’essere stato poi immediatamente coinvolto in un cambiamento radicale, non solo sul fronte liturgico-musicale ma più in generale su quello ecclesiale, gli conferisce un carattere esemplare per l’intera Chiesa italiana. Prerogative – sperimentazione ed esemplarità – che, accompagnate e sorrette dall’autorevolezza del rapporto intercorso soprattutto con l’arcivescovo di Milano card. Montini divenuto papa, hanno concesso alla sua produzione di godere di particolare attenzione nel panorama liturgico-musicale di quegli anni.